Una favola noir per Alice
Vaneggi, disperazioni e immagini, queste, di una favola cupa, che del romanzo di Lewis Carroll sceglie solo il nome e il pretesto, per affrontare con lievità ma senza falsi sentimentalismi l'atroce degenerazione del malato colpito dal morbo della SLA
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Che cosa accadrebbe se un'anomima piantina potesse pensare? E se potesse ricordare? “Ho bisogno d'acqua, qualcuno mi aiuti, soffoco!”, urlerebbe, il vegetale, nella speranza che il buon samaritano finalmente l'ascolti: un coniglio bianco, magari, che noncurante passava di lì.
Vaneggi, disperazioni e immagini, queste, di una favola cupa, che del romanzo di Lewis Carroll sceglie solo il nome e il pretesto, per affrontare con lievità ma senza falsi sentimentalismi l'atroce degenerazione del malato colpito dal morbo della SLA, poco più che una foglia secca, irremediabilmente ridotta prima nel corpo che nella mente a immobile artificio. Una malattia del nostro tempo, la sclerosi laterale amiotrofica, ignorata da molti eppure quotidianamente vicina, ancora irrisolta nelle cause come nella soluzione e quindi, purtroppo, a tutti gli effetti ancora possibile.
In “Alice, oh che meraviglia” Alessandra Tommasini riesce a restituirci il dramma senza il peso della sola tristezza, sviando dall'esasperazione della tragedia per aiutarci piuttosto, con delicatezza, a comprenderla. Finendo così per sposare i guizzi della fantasia e dell'ironia con una buona dose di rabbia, sulla fatalità certo, ma soprattutto su chi intorno a noi, siano essi politici, medici o persino conoscenti, di fronte alla malattia preferiscono la propaganda, il calcolo economico e la liberazione dallo stress.
Una piantina e la sua amante-amica-infermiera, sono loro le protagoniste di questo surreale monologo, sospeso tra i confini del reale e del sogno, tra senso e non senso, ora concentrato nella mente del malato ora nel mondo che intorno a lui insistentemente ruota ma mai, su di lui, davvero si posa. Ecco allora campeggiare sullo sfondo il caso di Eluana, icona simbolo affatto isolata, o ancora strambi primari, ridotti a maschera da Commedia dell'Arte, che sui possibili rimedi delle cellule staminali fanno spallucce. Non ci sono soldi... E allora che si fa? Ci si lamenta, si incoraggia il paziente, si sorride e, infine, si muore.
Sono molti gli spunti, nonché, per chi ha toccato con mano, gli echi di questa bella prova di una brava attrice, drammaturga e regista, che ancora lascia sul volto la sensazione profonda del dolore come il pizzicorio di un maldestro buffetto. Complice, senza dubbio, una ricerca essenziale e rigorosa, priva di sterili manierismi e capace di arrivare dritta al punto, sulle orme di un'immediata quanto salutare fascinazione.
Il testo dello spettacolo, vincitore del primo premio nazionale Bianca Maria Pirazzoli, ha partecipato alla rassegna “Artura. I colori delle donne”, presentata a inizio ottobre dal Teatro San Martino di Bologna, per poi essere inserito nella raccolta “Monologhi al femminile” a cura di Sebastiano A. Giuffida (edizionicorsare 2009), che vi consigliamo di sfogliare.
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