giovedì 3 dicembre 2009


Sclerosi laterale amiotrofica:
perchè colpisce spesso gli sportivi
La SLA, ovvero, la sclerosi laterale amiotrofica, la grave malattia neurodegenerativa, non ha ancora una cura specifica, così come è anche difficile e tardiva è quanto mai la diagnosi della malattia, di norma, almeno fino a ieri, visto che molto potrebbe cambiare da quando a partecipare a rendere più semplificato l’approccio alla patologia sta pensando Valentina Bonetto, ricercatrice del Mario Negri di Milano che insieme ad altri cinque ricercatori e supportata dai fondi Telethon, sta operando nella ricerca di specifici segnali della patologia al fine, domani, di prevederne la cura.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Il lavoro del team di ricercatori tiene conto del lavoro scientifico iniziato a Stoccolma e durato non meno di cinque anni. Trovare questi marcatori sarà tanto più importante in quanto ancora oggi la diagnosi di SLA richiede un tempo che va da un anno ad un anno e mezzo circa, un tempo troppo lungo che finisce per vanificare la possibilità di accorgersi in tempo che qualcosa nell’organismo sta cambiando e, se è vero che non esiste una vera cura, vero è anche che potendo diagnosticare con largo anticipo la malattia si potrebbe offrire il modo per studiare direttamente gli effetti della SLA sul paziente creando dei gruppi di studio al fine di sperimentare dei farmaci sulla scorta dei dati disponibili sui singoli ammalati.


Ad esempio, come riferisce la professoressa Bonetto, sono stati identificati alcuni biomarker su un piccolo numero di pazienti, una ricerca laboriosa che si vorrebbe estendere su un numero ancora più ampio di ammalati. Del resto la SLA fino adesso è ritenuta una malattia molto particolare che varia da soggetto a soggetto per quanto concerne i tempi di insorgenza, la velocità di progressione, partendo dalla consapevolezza che l’età d’esordio della malattia è intorno ai 45/50 anni. Tuttavia oggi si sa ad esempio che nell’organismo qualcosa accade intorno a quell’età, periodo in cui, alcune persone non avrebbero più la capacità di allontanare naturalmente quei fattori, ambientali e genetici, che una volta accumulatisi aprono la porta alla malattia.


Diventa suggestivo a questo punto la constatazione, ai fini dell’approccio conoscitivo della SLA, che questa colpisca in una certa misura sportivi ed atleti in generale e tale evidenza assume molta importanza; la motivazione che la ricercatrice italiana offre, quando ammette tale possibilità, consente di azzardare una spiegazione derivante dal fatto di attribuire a ciò i possibili stress ossidativi che il lungo allenamento determina, associandosi alla malattia o creando le condizioni per ammalarsi.


Una cosa è certa, capire i meccanismi che entrano in gioco nella SLA aiuta a trovare la cura e questo è il lavoro che con tenacia e ostinazione viene alacremente portato avanti dal gruppo di studiosi capitanato dalla ricercatrice

Valentina Bonetto.

Anonimo ha detto...

La sindrome da sovrallenamento può avere un qualche ruolo nella manifestazione della malattia?