Fa testamento e si lascia morire
Da sei anni il padovano Damiano Bano
era malato di Sla
- Il racconto della figlia Barbara:
«Ha programmato tutto per farla finita»
"Se il buon Dio ha deciso che io non debba più respirare
"Se il buon Dio ha deciso che io non debba più respirare
non voglio più respirare,
se il buon Dio ha deciso che cessi la mia alimentazione
non mi voglio più alimentare.
Se questa è la sua volontà così sia». "
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La storia - Il racconto della figlia Barbara: «Ha programmato tutto per farla finita»
«Per favore non curatemi»
Fa testamento e si lascia morire
Da sei anni il padovano Damiano Bano era malato di Sla
PADOVA — «Se il buon Dio ha deciso che io non debba più respirare non voglio più respirare, se il buon Dio ha deciso che cessi la mia alimentazione non mi voglio più alimentare. Se questa è la sua volontà così sia». Ma la volontà del «buon Dio» era anche la volontà di Damiano Bano, messa nero su bianco nel testamento biologico firmato l’8 agosto 2008: no alla tracheotomia, no al sondino naso-gastrico o a qualunque altra forma di alimentazione o respirazione forzata. 63 anni, una forma particolarmente aggressiva di sclerosi laterale amiotrofica (Sla) e una grande determinazione. Mercoledì scorso alle 18 i medici hanno dichiarato la sua morte. La causa? Una crisi respiratoria che appare una sorta di «eutanasia » camuffata, dove la sua determinazione, la sua volontà o, come diceva lui, la volontà del «buon Dio», non sono rimaste inascoltate.
I problemi respiratori sono iniziati nel pomeriggio ma Bano, il «Welby padovano», ha impedito in tutti i modi ai suoi familiari di chiamare un’ambulanza. Ha atteso fino all’ultimo, per lunghissimi minuti ha continuato a rifiutare le richieste dei parenti e solo quando le sue condizioni apparivano già molti gravi ha accettato di farsi accompagnare al pronto soccorso. Ad un patto: arrivare all’ospedale di Padova accompagnato nella sua auto. Una richiesta al momento incomprensibile ma rivelatasi un dettaglio per nulla indifferente. Se i soccorsi fossero stati allertati a tempo debito, se il trasporto fosse avvenuto a bordo di un’ambulanza del Suem, se i medici avessero bussato alla porta della sua abitazione di Mestrino (nella provincia padovana) di certo gli sarebbe stata praticata una tracheotomia, di certo sarebbe stato intubato. Una procedura che gli avrebbe probabilmente salvato la vita ma che l’avrebbe condannato per troppo tempo ancora a un letto, a flebo e a macchinari medici. «La normativa in vigore non permette infatti di tornare indietro da procedure chirurgiche di questo tipo – ha raccontato la figlia Barbara – e per lui sarebbe continuato il calvario, comincio a credere seriamente che mio padre avesse programmato tutto per farla finita».
Da quando 6 anni fa gli avevano diagnosticato la sclerosi, da quando il medico guardandolo negli occhi aveva parlato di «tre anni di vita al massimo », l’esistenza di Bano si era votata alla lotta contro le barriere architettoniche (quando ancora poteva muoversi in sedia a rotelle) e per il testamento biologico (quando la malattia degenerativa aveva compromesso seriamente i suoi movimenti). La voce della figlia, che tanto da vicino ha seguito le battaglie, gli appelli, le lotte di uno dei tanti «Welby» esistenti in Italia, racconta gli ultimi momenti di vita del padre. E’ lenta, calma, quasi serena. «Grazie a lui abbiamo fondato un’associazione, la Asla onlus, per ricordarlo, per non rendere la sua lotta inutile continueremo attraverso questo gruppo di persone a batterci per garantire una vita dignitosa ai malati di Sla». Circa tremila le telefonate arrivate a casa Bano, in attesa dei funerali nella chiesa di San Bartolomeo di Mestrino. «Sono fermamente convinto che questa legge, così com’è, sia anticostituzionale, un vero e proprio accanimento terapeutico — raccontava Bano in un’intervista, pubblicata in queste pagine lo scorso aprile —. Sono lucido e non vedo perché lo Stato, o per lui un medico, debba avere l’ultima parola sulle mie cure».
Vicenza. La Sla uccide. Due nuovi drammi al S. Bortolo. Due casi umanissimi. Due donne. Due mamme. La prima una casalinga di 56 anni, 2 figli, abitante in città. Malata di sclerosi laterale amiotrofica, la malattia degenerativa che spegne per sempre i motoneuroni, cioé le cellule cerebrali e spinali deputate al movimento dei muscoli, portando un po' alla volta a un punto di non ritorno, ma lasciando intatte mente e coscienza. La stessa malattia devastante che ha colpito Piergiorgio Welby e Luca Coscioni, due testimoni dolorosi che in Italia hanno fatto avvertire in modo assordante l'angoscia di una situazione estrema che continua ad attendere risposte giuridiche, etiche, sociali.
Una malattia senza cure. Senza speranze. Che corre rapida. L'epilogo per lo più da 2 a 5 anni, anche se oggi, con la ventilazione assistita, molti pazienti sopravvivono fino a 10 anni. Ma sempre con una vita che non è più vita. Finora la mamma vicentina aveva retto all'attacco della Sla. Da due anni si aiutava con un ventilatore. Ma era arrivata all'ultimo stadio. Muscoli completamente atrofizzati. Non riusciva più a deglutire. C'era bisogno di un'assistenza continua e totale.
Così la donna è stata ricoverata al S. Bortolo nel reparto di pneumologia, dotato di macchine per la ventilazione. Il primario Rolando Negrin e i suoi si sono specializzati nell'assistenza di questi pazienti. Per continuare a vivere avrebbero dovuto praticarle la tracheostomia. Un foro sul collo. Una cannula conficcata nella trachea per lanciare l'ossigeno direttamente nei polmoni.
Nessuna alternativa. Negrin, tanta competenza e altrettanta umanità, è andato a parlarle. La paziente era perfettamente vigile. «Le ho spiegato che era l'unica possibilità». Ma lei, con gli occhi, con qualche parola, ha fatto capire che rifiutava, non voleva. I figli hanno cercato di convincerla a lottare ancora. Ma si sono dovuti arrendere alla volontà della mamma. E la fine è arrivata presto, in una settimana.
Un improvviso arresto cardio-respiratorio. Una sistolia, l'assenza di attività elettrica nei ventricoli. Un'aritmia cardiaca per scarsa ossigenazione. «Negli ultimi giorni - racconta Negrin - ha sempre avuto vicini i figli, con l'appoggio di una psicologa. L'abbiamo accompagnata fino all'ultimo nel rispetto della sua decisione, senza sedarla, dandole antidolorifici. L'ospedale è del malato, non del medico. Bisogna assecondarne la volontà. Noi dobbiamo solo cercare di lenire la sofferenza».
Solo poche ore dopo a pneumologia si consumava il secondo dramma. Vittima un'altra donna, 60 anni, di Lonigo, sposata, due figli, dipendente dell'Ulss 5, malata di Sla dal 2005. Per Negrin un colpo al cuore. Si è trovata dinanzi una persona che aveva collaborato con lui per anni quando era primario all'ospedale di Lonigo.
Veniva già nutrita per via enterale con una pompa a infusione. E ora era il momento della tracheostomia. «Le ho parlato come fosse mia sorella - dice Negrin - ma non voleva pensarci». Il cuore si è fermato prima. In 24 ore. «Quando si trovano in queste condizioni non sono mai sereni, ma lei aveva una fede paurosa».
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